Covid-19 e… la nostra paura
Se un merito proprio lo volessimo individuare in questa recente pandemia virale da COVID-19, dovremmo andarlo a cercare nella consapevolezza che ha fatto crescere dentro di noi.
Nel giro di pochi giorni ci siamo trovati a confrontarci in maniera diretta, con qualche cosa che prima di oggi appariva reale solo nelle migliori storie di fantascienza.
Dallo stadio della fantasia poi siamo stati rapidamente traghettati in una fase di realtà a distanza; con le immagini spaventose ma sotto controllo perché provenienti dalla Cina.
Negli ultimi giorni infine si è arrivati al confronto diretto e rapidissimo, con il mostro.
Il virus è stato dichiarato presente tra noi e con tempi che a definirli celeri sarebbe poco, sono state assunte una serie di misure atte a controllarlo: chiusura di molti luoghi pubblici, scuole incluse; delimitazioni di zone a rischio con tanto di presenza delle forze dell’ordine o dell’esercito, per far rispettare in modo tassativo queste aree; immagini trasmesse ovunque di persone limitate nei propri spostamenti o obbligate ad abbandonare luoghi, piuttosto che a restarvi chiuse; numeri di contagiati, ricoverati e purtroppo anche morti, che si rincorrevano ad ogni ora.
Il tutto per cosa? Per una fonte di pericolo immateriale nella sua natura e tanto microscopica da rendersi invisibile. Trasmissibile poi per via aerea e quindi, come tale, potenzialmente presente ovunque!
Ciascun luogo potrebbe teoricamente già esserne infetto e ogni persona, altrettanto teoricamente, potrebbe veicolare in sé il virus, così da spargerlo ancora più capillarmente di quanto già non potrebbe essere stato fatto prima che ci accorgessimo della sua presenza.
Le domande che hanno iniziato a girare nella testa di tutti allora sono state: quanto si è già diffuso? Dove potrei essere al sicuro? Da chi mi devo guardare e di chi invece mi posso fidare?
Per tutte queste ragioni possiamo capire che una tale tipologia di rischio, a differenza di quella costituita da altri pericoli che abbiamo conosciuto in passato (guerre, terrorismo, cambiamenti climatici, ecc.) ha innescato una paura più profonda di quelle già toccate dentro di noi.
Il rischio c’è (ci viene detto) ma noi non possiamo vederlo. Si manifesta con modalità anche molto frequenti e banali (raffreddore, influenza, difficoltà respiratorie), con cui spesso conviviamo nelle nostre giornate. Non c’è un vaccino (leggasi una “cura”) ancora disponibile e quindi la malattia può diventare potenzialmente pericolosa.
Dunque, quanto temerlo?
Scopriamo così che il vero confine della paura sta solo dentro di noi e che solo li può essere individuato il limite, diverso per ciascuno, della preoccupazione da sperimentare di fronte al nemico invisibile.
Dalla psicologia sappiamo che il rischio può trasformarsi da oggettivo in soggettivo, secondo come utilizziamo i dati a nostra disposizione.
È così che, in tempo di social, il susseguirsi di informazioni spesso fasulle, ci getta in confusione e ci porta ad avere una percezione della realtà molto diversa da come essa è realmente.
Questo ci conduce, secondo quanto le ricerche hanno appurato da molto tempo, ad innescare istintivamente un pattern di risposte innate che va sotto la sigla di “Reazione di stress”. Queste vengono gestite in prevalenza dal sistema simpatico del nostro organismo e pertanto non sono mediate dal pensiero. Non sono consapevoli, risalgono alle stesse esperienze che i nostri progenitori delle caverne vivevano ogni giorno e dalle quali dovevano cercare di difendersi per conservarsi in vita.
Così oggi non è più solo il pericolo reale a far partire il nostro sistema circolatorio, metabolico, ad aumentare la frequenza cardiaca, ecc., ma anche la sua semplice percezione.
Appunto come accade sotto il bombardamento di notizie che abbiamo ricevuto in questi giorni sul COVID-19.
È così che, conoscendo come funzioniamo sul piano psico-biologico e sapendo quanto stia succedendo realmente attorno a noi, possiamo trarre la lezione della consapevolezza di cui si diceva.
Osservando l’entità della nostra paura, scopriamo quanto realmente tendiamo a restare ancorati alla realtà o piuttosto a ciò che di essa tendiamo a “percepire”: non certo e solo per causa nostra, ma pur sempre cedendo alla tentazione di credere più a ciò che si racconta, che non a ciò che appare realmente.
L’impalpabilità della materia virale poi fa il resto e noi sperimentiamo ansia e panico al punto da difenderci e chiudere i nostri mondi e le nostre relazioni.
La vera consapevolezza che invece dovremmo acquisire è rispetto al nostro stato di fragilità. Della precarietà delle nostre vite così ancorate a sistemi di comunicazione e di riferimento, che vanno facilmente a mettere in crisi tutta l’esistenza se subiscono uno stop.
La malattia non è affrontabile. La morte è un tabù. L’isolamento ci terrorizza. Questo è ciò in cui troppo spesso crediamo. Ed è così che di fronte ad un problema sconosciuto e per di più impalpabile come un virus, il nostro intero universo quotidiano rischia di sgretolarsi.
Siamo fragili interiormente, questo ci dice la nostra paura. E lo siamo tanto più quanto forte proviamo questa paura.
Converrebbe occuparci di noi quindi, non tanto del virus.
Delle nostre relazioni e non della nostra capacità di isolarci.
Della nostra convinzione che “da solo è meglio”, piuttosto che del timore di incontrare gli altri sul nostro cammino.
Siamo fragili perché il virus ci ha colti che già stavamo combattendo. Ci ha trovati già sfiniti da uno stile di vita che rende precari, tutti ancorati come siamo a servizi, informazioni e virtualità.
COVID-19 è stata la prova generale di come potremmo facilmente essere stesi e annientati. Divisi e ridotti a poca cosa, se non sapremo ricreare al nostro interno e intorno a noi, certezze che vanno oltre i nostri ruoli e le nostre flebili forme di potere contemporaneo.
Solo se lavoreremo dentro noi stessi potremo superare davvero questa fase ed apprendere la sua lezione.
Il virus nel frattempo, magari sarà già passato.